
Non è difficile capire perché le “bollicine” riscuotano tanto successo in un Paese che beve sempre meno vino. Anzi, che del vino sembra non volerne proprio più sapere, con buona pace dei pr-addetti stampa in servizio permanente effettivo mascherati da giornalisti.
Charmat o Metodo Classico che siano, realizzati con uve autoctone o francesi, sono tra le poche tipologie a crescere quanto a volumi, vendite ed esportazioni. E dal mio punto di vista molto contribuisce la loro distanza formale dagli abituali riferimenti bacchici, almeno nella percezione presso il famigerato “grande pubblico”. Neanche si usa più ormai, la parola “vino”, quando ordiniamo uno spumante o ci viene proposto: aperitivo, prosecco, champagne, moscato diventano vere e proprie categorie merceologiche a sé stanti, a prescindere dalla corretta corrispondenza tecnica, varietale o territoriale. E basta girare un po’ tra ristoranti, bar ed enoteche ed osservare gli avventori per rendersi conto di come vada il mondo fuori dal nostro chiacchiericcio virtuale. Una quota non proprio marginale di bevitori è realmente convinta che le bollicine siano qualcosa di sostanzialmente diverso, di altro, dal vino e non c’è da meravigliarsi per questo.
State tranquilli, non aprirò qui una parentesi delle mie sul perché e sul percome vecchie e nuove generazioni di consumatori stanno rivoluzionando le proprie abitudini di fruizione alcolica. Vale comunque la pena di farsi qualche domanda nel momento in cui i numeri segnalano un interesse per tutto ciò che in qualche modo si allontana dalla retorica classica e si avvicina ad un’immagine più libera e generica di “bevanda”. Solo uno struzzo negherebbe la mutazione antropologica in atto, che si manifesta anche attraverso i fenomeni di alfabetizzazione gustativa. In questo senso possiamo serenamente accettare il fatto che la comunicazione enoica analizzata nel suo complesso – presenti inclusi – abbia miseramente fallito. Se dalla Valle d’Aosta alla Sicilia i bilanci delle cantine ritrovano ossigeno grazie proprio ai “vini che meno sembrano vino”, forse la individuiamo qualcosa che non ha funzionato nel sistema di corsi, serate, fiere, anteprime, schede, articoli, post, listini e compagnia bella.
Non mi stupisce affatto, insomma, la crescita del comparto spumantistico, italiano e non solo. Faccio più fatica a comprendere, invece, come il mercato possa assorbire una tale quantità di roba del tutto trascurabile alla prova del bicchiere. Crescono le interpretazioni degne di nota, nei terroir più consolidati per identità produttiva (Conegliano-Valdobbiadene, Franciacorta, Trento, Oltrepò Pavese, Alta Langa, Emilia) ma anche in quelli per molti versi “vergini”, sparsi a macchia di leopardo per lo stivale. Un upgrade che non riesce tuttavia a compensare a pieno l’invasione di bollicine insignificanti, dolciastre, crude, slavate come una Corona con la fetta di limone o gassate come un Bacardi Breezer. Dove c’è gusto non c’è perdenza, dice il saggio, eppure continuo ostinatamente a credere che la differenza tra il buono e l’inutile sia abissale e che basti un pizzico di distrazione in meno per sentirla. Senza per forza diventare campioni del mondo di roteazione calice o stilare in tempo reale l’elenco di 75 descrittori olfattivi.
C’è bevanda e bevanda, dico io. E mi va benissimo se la categoria merceologica torna utile per incuriosire un amico e farlo sfiziare con una bottiglia del Fiano Spumante La Matta di Casebianche. Ho ristappato il 2013, godendo in maniera invereconda con una cena leggera mediterranea e trenta gradi in casa. E soffrendo contemporaneamente, perché mi piange il cuore di non averne più. Perché sarebbe stato bellissimo poterne aprire un’altra a bordo piscina, di mattina, di pomeriggio, al tramonto, a mezzanotte. Perché questo è il tipo di “bevanda al vino”, se così deve essere, che vorrei pescare ogni volta che il barista, il sommelier, il bottegaio mi fa: «Bollicina, capellone?»
Le parole hanno sempre un legame fortissimo con le cose che descrivono, talmente profondo da sfuggire talvolta ai loro stessi “creatori”. Pasquale Mitrano – titolare di Casebianche – forse non lo sa, ma un vino come questo non poteva che chiamarsi così: una variabile impazzita che spunta fuori da una zona come l’Alto Cilento, che teoricamente dovrebbe essere quanto di più lontano dalla vocazione spumantistica. Ma c’è di più: “la matta” è anche il re di denari nelle carte napoletane, vale a dire il “jolly” di giochi come il “Setteemmezzo”, tradizionale passatempo delle serate natalizie in famiglia, almeno dalle mie parti. Non sempre vince chi la pesca, perché la matta prende il valore numerico che gli assegniamo solo se ha almeno un’altra carta vicino. Da sola non vale niente.
Nel mio modello sillogistico, La Matta è un jolly per tutti i momenti della giornata, che può renderti ancora più felice se hai da affiancargli qualche niccaria pescata dall’orto, dal mare, dal maiale, dall’uliveto, dalla bufalaia, dal cortile e da cento altri luoghi e laghi che mi vengono in mente. Per i dettagli tecnici vi rimando al post dedicato al fratellino rosato, quel Fric da aglianico che si presta a narrazioni molto simili (link). Qui voglio soltanto sottolineare, se ancora non si fosse colto, il piacere multidimensionale, tanto fisico quanto intellettuale, di una bevuta così.
Sembra veramente una bibita, ma senza nulla di artificioso, appiccicoso, paraculo, costruito a tavolino. Perché gli aromi sono proprio quelli dell’uva fiano, quello ancora un po’ acerbo ma già profumatissimo che sgranocchi mentre giri tra i filari in prevendemmia. La buccia del limone, le erbe da cucina, la susina, il tutto arricchito dalle suggestioni del pane impastato in lievitazione, che aggiunge fragranza a fragranza. A un anno dall’ultimo assaggio lo trovo solo più armonizzato nel sorso, ma confesso di non essere riuscito a seguirlo per più di un quarto d’ora. Game over, solo il vuoto trasparente tra le mani.
Una mosca bianca anche e soprattutto in rapporto allo scenario spumantistico regionale. Che da un lato si sta ampliando per opzioni e ambizioni, come dimostrano tutta una serie di progetti pensati con i vitigni tradizionali e sviluppati in loco. Mentre dall’altro deve ancora fare i conti con troppe etichette che a mio avviso non riescono ad andare oltre il compitino di un mero completamento di gamma (così sappiamo già cosa troveremo in edicola nelle pagine enogastronomiche del weekend). Ed è un peccato, perché gli operatori campani desiderano puntarci eccome su queste tipologie, fanno il tifo, le propongono con commovente ostinazione e meriterebbero una rosa assai più competitiva per spiegare ai loro clienti che qua si fa sul serio.
E a chi dice che alla fine sono chiacchiere, che tanto queste bevande, pardon bollicine, si smaltiscono lo stesso, faccio soltanto notare che l’oggetto più venduto del 2015 è il bastone per selfie.
La mia prima sera di ritorno a casa ho sbollato due bottiglie di Prosecco col fondo da 10,50% e goduto come un riccio. La seconda sera, al ristorante, Gustino B. 2013 di Ruggeri è finito prima che arrivassero gli antipasti.
A parte il vano tentativo di equilibrare in solitaria le sorti del consumo di vino italiano, BollicineLove4Ever.